Negli ultimi giorni molti editori europei hanno segnalato una perdita improvvisa di visibilità su Google Search. Non si tratterebbe di una semplice oscillazione nei ranking e, secondo le testate coinvolte, il crollo coinciderebbe in modo netto con l’introduzione della nuova site reputation abuse policy, con cui il colosso di Mountain View intende frenare la circolazione di contenuti prodotti da partner commerciali e ospitati su siti con un ranking più alto. È stata proprio questa ondata di segnalazioni a spingere la Commissione Europea ad avviare un’indagine formale.
La policy nasce con l’obiettivo di impedire che domini autorevoli migliorino artificialmente l’esposizione di contenuti provenienti da realtà più piccole, una pratica che Google definisce “pay-for-play” e che considera in grado di ridurre la qualità delle ricerche. Dal canto loro, gli editori sostengono che queste collaborazioni editoriali rappresentino un modello di monetizzazione legittimo, particolarmente utile in un mercato che offre sempre meno alternative sostenibili.
Nel suo intervento sul blog ufficiale The Keyword, Pandu Nayak, chief scientist di Google Search, ha definito l’indagine europea “fuorviante e potenzialmente dannosa”, ricordando che un’autorità tedesca ha già esaminato lo stesso tema e ha giudicato la policy “valida, ragionevole e applicata in modo coerente”. L’impressione è che le due parti stiano osservando lo stesso fenomeno da angolazioni opposte: Google vede una distorsione del sistema, gli editori vedono una restrizione del loro spazio economico.
Il punto centrale per Bruxelles riguarda la possibile violazione del Digital Markets Act. Google Search, classificato come core platform service, è soggetto a un regime di responsabilità più severo. Questo significa che qualsiasi modifica potenzialmente impattante sulle dinamiche del mercato deve garantire neutralità e assenza di discriminazioni. Resta quindi da capire se la nuova policy stia colpendo tutti in modo uniforme oppure se stia penalizzando alcune categorie di operatori in maniera sproporzionata.

Se l’indagine dovesse confermare una violazione del DMA, le conseguenze non sarebbero marginali. La Commissione potrebbe imporre sanzioni fino al dieci per cento del fatturato globale di Alphabet e, nei casi più gravi, arrivare persino a valutare interventi strutturali più invasivi, come il blocco di acquisizioni o lo scorporo di attività considerate dominanti.






















































































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